23 dicembre 2007

Sarà una bistecca che vi seppellirà

Un pezzo che oggi è sulle pagine di Queer - Liberazione, insieme a articoli di Alessandro Delfanti e di Sabina Morandi, tutti sul cibo.
Il titolo e' stato scelto dalla redattrice: io avevo proposto un sentore old school, con "gastronomia operaia, cannibalizzazione...". Ci sono anche piccole variazioni, nel testo. Il libro di cui si parla è comunque consigliato.


Al cappone, al brodo e al ripieno per i cappelletti, ancora in pochi oppongono un diniego: è festa, tutti siamo più buoni e sollevare nella nonna qualche preoccupazione ("la carne ti fa bene! guarda come sei pallido!") o discutere con lo zio fascista a proposito di ciò che si mangia ("ma che discorsi sono, non è che sei un po' una checca?"), spesso non è considerato un buon modo per trascorrere il natale in famiglia. Tuttavia, quell'essere più buoni è estremamente "locale": siamo più buoni con noi stessi e i nostri parenti più stretti. Forse facciamo un po' di beneficienza, e compriamo i biglietti di Emergency o Medici Senza Frontiere. Ma perché non riusciamo ad allargare l'etica al cibo? Ovvero: cerchiamo di non prendere sempre l'auto, o preferiamo il treno all'aereo, o compriamo anche il caffé del mercato equo, ma anche a sinistra mangiamo carne di animali intelligenti e inquiniamo il pianeta per soddisfare la voglia di salumi e bistecche. Eppure, mangiamo tre volte al giorno, e prendiamo l'aereo due volte l'anno: sarebbe più logico, e fruttuoso per molti aspetti, pensare più in dettaglio a ciò che mangiamo. Dunque, perché solo raramente si discute di etica delle scelte alimentari? E' a questo paradosso che invita a guardare il bel libro di Peter Singer e Jim Mason "Come mangiamo" (Il Saggiatore, pp.382, euro 20). Tre famiglie, tre stili di vita: onnivori, onnivori coscienziosi e vegani. I due autori hanno seguito passo passo le famiglie nelle loro scelte alimentari, analizzando la filiera produttiva che si conclude con il piatto in tavola. I risultati sono in gran parte ovvii, e tuttavia interessanti: un'alimentazione che escluda la carne e gli altri derivati animali è ovviamente più sostenibile dal punto di vista ecoambientale (si veda l'articolo qui accanto), e meno problematica dal punto di vista dell'etica. Ovvio, dal momento che uccidere un organismo con un complesso sistema nervoso come un vitello è naturalmente più problematico che cogliere un cespo di lattuga, e che il mais destinato al vitello potrebbe sfamare un umano, piuttosto che essere trasformata in una serie di cose inutili (ossa, calore corporeo). Ma è molto meno ovvio, e molto ben documentato, il modo con cui vengono sostenute le argomentazioni, con un ragionamento (quasi) sempre stringente fondato sul rispetto del benessere animale e quindi sul minimizzare la sofferenza che infliggiamo alle forme viventi che ci circondano. Gli autori fanno racconti raccapriccianti che provengono dagli allevamenti intensivi e industriali statunitensi: bestie ammassate, immobili, stressate, ingozzate con cibo innaturale, polli utilizzati come palloni da calcio. I vitelli vengono per esempio mantenuti appositamente anemici, così che la loro carne arrivi al consumatore chiara e tenera, mentre è necessario il costante uso di antibiotici per tenere a bada le numerose malattie che questo tipo di allevamento rende molto più comuni tra il bestiame. Al punto che secondo un articolo di Michael Pollan apparso il 16 dicembre sul New York Times, "senza questi farmaci, la produzione di carne su questa scala e con quest'intensità non può essere sostenuta per più di pochi mesi".
Dunque, non ci sono molte scuse per continuare a mangiare carne: fa male agli animali e all'ambiente (dove va a finire il mare di letame che producono?), e mette a rischio la salute umana (gli antibiotici generano resistenza negli agenti patogeni). Forse un po' meglio va con latticini e altri derivati, ma anche qui l'industrializzazione non pensa molto al benessere degli animali.
Per chi invece scelga una strada di "consumo sostenibile", abbandonando per quanto possibile carne e prodotti industriali, si pongono interrogativi etici che riguardano gli animali umani. L'esempio più lampante è il dilemma locale vs globale: scartando le produzioni industriali o in serra che provengono da migliaia di chilometri di distanza, è sempre meglio scegliere il contadino vicino casa? O forse il mercato equo e solidale è un'alternativa eticamente più accettabile? In questo caso quindi poniamo da un lato l'energia spesa per far arrivare la merce da un paese tropicale invece che dalla campagna, e dall'altro il benessere di una comunità in via di sviluppo rispetto a un contadino (quello americano o europeo) sicuramente più ricco e già protetto dalle sovvenzioni istituzionali. Scelta non facile, e anche intrinsecamente politica: il commercio equo, che ha comunque moltissimi aspetti positivi, spinge alla produzione da esportazione e ad entrare, seppur in modo "riformista" all'interno dei meccanismi di mercato. (E proprio a questo riguardo, si ricordi il dibattito su queste pagine sui fagiolini del Burkina Faso importati dalla Coop). Come la mettiamo? Con la lettura del libro di Singer e Mason, ma anche attraverso "semplici" domande che ognuno di noi si può porre, si arriva quindi a un nucleo duro che va affrontato: in che misura il mercato, "questo" mercato, è in grado di sostenere produzioni eticamente e ambientalmente accettabili? O nel momento in cui il mercato equo e solidale smette di essere di nicchia e arriva al supermercato è irrimediabilmente corrotto? Gli stessi ragionamenti possono essere fatti per le produzioni biologiche. Mentre tentiamo di trovare una soluzione definitiva, possiamo comunque fare molto, e con poco sforzo. Etica e ecologia possono andare a braccetto in una dieta fondamentalmente vegetariana e basata principalmente su alimenti biologici: minore sofferenza animale e minore impatto ambientale. Basta metterci un po' più di attenzione e tirar fuori qualche euro in più, giustificato dal fatto che la produzione di alimenti biologici ha un prezzo ambientale infinitamente minore. L'agricoltura e la zootecnia industriali scaricano sulla collettività problemi enormi, sotto forma di distruzione di ecosistemi, peggioramento della qualità della vita, consumo delle risorse, ecc. che non vengono calcolati nel prezzo finale del supermercato. Ma se vi aggiungiamo, per esempio, il costo legato all'inquinamento delle falde acquifere dovuto ai diserbanti, il prezzo al banco risulta ben più alto, e viene pagato attraverso le nostre tasse. C'è un modo molto semplice per ridurre la spesa pur comprando bio: comprare meno, comprando meglio ed riducendo gli sprechi. Un piccolo gesto di decrescita, consapevoli che ogni forchettata è anche una scelta politica.

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