03 maggio 2007

Il Lavoro esiste, parola di fotografo

Un mio pezzo uscito oggi su Liberazione, p.5

iamo la società della conoscenza, viviamo di informazione, smaterializzati in quella che vorremmo far essere una second life senza peso. Salvo poi scoprire che il petrolio costa tanto e senza non possiamo utilizzare le nostre amate tastiere qwerty e che se piove poco anche le industrie del Cordero di Montezemolo subiscono danni, non solo i pakistani che vendono ombrelli alla fermata della metro. Esistono ancora la materia e la sua massa, il lavoro materiale e la materialità della vita, solo che sono virtualmente invisibili. Work in progress vuole rendere visibile questo tabù mediatico. E' un progetto nato attorno alla rivista Il Maleppeggio. Storie di lavori (www.ilmaleppeggio.it), con un gruppo di fotografi, che è diventato comunità e comunanza di intenti: rappresentare il lavoro nel suo aspetto più solido nonché nella normalità. Una normalità che solitamente raggiunge il pubblico solo negli aspetti più deleteri: la normalità dello sfruttamento, della morte, del conflitto. E quindi dei cantieri si parla solo quando l'ormai archetipico rumeno vola giù dal ponteggio; delle fabbriche solo quando una ferrovia è bloccata; dei precari quando ci si rende conto che una generazione si sta bruciando.
Il lavoro però va avanti: sui luoghi di lavoro "normale", quello dell'Otto e del Novecento, cantieri fabbriche stazioni, persone con una loro solidità legata al lavoro stesso, o alla vita che immettono nel loro lavoro. E' questo quello che emerge da uno dei pezzi della mostra Work in progress , visibile alla libreria-caffè Giufà (a Roma, in via degli Aurunci 38, fino al 17 maggio). Sono le Aritmie fotografiche di Giorgio Palmera e Saul Pàlma, foto di cantieri nei momenti in cui non è il processo di lavoro a dettare il tempo: un operaio dal viso tondo con i baffi e la sua moka in preparazione nella pausa, per esempio. Gesti e visi che si vedono magari nei film sugli italiani fatti all'estero, ma che la nostra tv e i nostri giornali hanno volutamente rimosso dall'orizzonte visibile. Le Aritmie sono quindi salti inaspettati, buchi nello spazio-tempo del lavoro ma anche nella percezione che lo spettatore della foto porta con sé andando a vedere le fotografie.
La serata di inaugurazione della mostra ha declinato anche letterariamente l'aspetto del lavoro odierno, in particolare con le letture di Christian Raimo, che ha messo in voce due testi sulle morti bianche (pubblicato sulle pagine di questo giornale) e le mille incognite della precarietà («ho fatto un master in ... e ho lavorato come ... fino al ...»). Da quest'ultimo testo è emerso un altro aspetto della materialità legata al lavoro: precarietà vuol dire spesso non avere un vero legame con la propria professione, e quindi la solidità e la materialità degli individui va ricercata al di fuori di essa. Io telefonista o cameriera smaterializzo me stesso nell'orario di lavoro, e riappaio quando esco. Questo tema viene messo in immagine da Alessandro Imbriaco e Francesco Millefiori (dal 12 al 31 maggio a Agave bistrot libreria di via San Martino ai Monti 7, agavebookbar.blogspot.com), con un portfolio realizzato nelle abitazioni di precarie e precari. Sono loro stessi che con un telecomando hanno scattato le foto, in un'autorappresentazione domestica e movimentata che dà fisicità per esempio alla voce di «Francesca, operatrice n.671-761, in cosa posso esserle utile?». Una fisicità visibile trasmessa anche dalle immagini di Alis Thieck-Alami (L'uomo morto, ad Agave fino all'11 maggio) dedicate ai treni e alle presenze nelle cabine di guida. Luoghi e persone al lavoro in movimento, solitamente invisibili a noi passeggeri: vi accediamo solo grazie all'artificio fotografico, o attraverso la negazione conflittuale del lavoro, lo sciopero che le cabine lascia vuote e ferma i viaggiatori.
Sparso nella città in diversi bookbar - i già citati Agave e Giufà, ma anche il C.A.O.S. CulturalArtistsOpenSpace (www.caos2004.com) che ha promosso il progetto e altri cinque spazi, il progetto Work in progress è sviluppato all'interno di FotoGrafia-Festival Internazionale di Roma (www.fotografiafestival.it). Quasi un ossimoro: perché se il festivalismo veltroniano dopo l'ondata si ritira senza lasciar sedimenti, i bookbar si propongono come spazi culturali diffusi, "normali" e non "straordinari", quotidiani luoghi di scambio e discussione. Il gruppo di fotografi Work in progress è proprio legato a questo modello: il progetto fotografico nasce all'interno di una comunità che è in continua autoformazione, e che sul lavoro punta come tema unificante da declinare in molti modi. Una modalità, quella comunitaria, che si sta proponendo sempre di più all'interno della fotografia, grazie anche a Internet. Un esempio è stata la mostra Confini/Boundaries vista alla Casa del Jazz e chiusa il 30 aprile (www.sguardourbano.it), nata intorno a un gruppo di utenti di Flickr che ha raccolto foto provenienti da diverse nazioni. Progetti collaborativi che sembrano esprimere il desiderio di espressione sociale e cooperativa, e con essa trovare inedite modalità per dar senso alle vecchie e nuove forme di vita e lavoro.

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